Nato a Homs, Libia, nel 1934, Mario Schifano e' considerato uno dei più importanti artisti italiani. Inizialmente, lavora alle dipendenze del padre, archeologo restauratore al Museo Etrusco di Valle Giulia. Disinteressato, abbandona ben presto l’attività paterna per dedicarsi alla pittura. “Perché ho cominciato a fare l’artista? Devo dire la verità, non ci sarebbe quasi nessun motivo, se non aver fatto per quattro o cinque anni il lavoro di restauro al Museo Etrusco: mi era venuto proprio un senso di disperazione! Ecco, io faccio l’artista praticamente per violenza, e per distruggere questa cosa del lavoro al Museo” (in "Flash Art" n.127 dell’ottobre 1991).
Esordisce nel 1959 alla Galleria Appia Antica con opere gestuali in cui si ravvisa quella sgocciolatura che lo contraddistinguerà per il resto della sua carriera. Pochi mesi più tardi Emilio Villa preconizza che “nel luogo della coscienza collettiva questo pittore è un punto identificabile, un livello importante e non rilassato di un generale processo formativo, proprio per lo slancio evidente che determina la sua fictio già ricca di una pronuncia ideata, per uno scatto riflessivo che si potrà, a nuove prove, a nuove prede, certamente graduare” (piccolo puma di cui non si sospetta la muscolatura, ribadirà Parise nel 1965).
Nel1962 parte per gli States entrando a diretto contatto con la Pop americana; alla Sidney Janis Gallery di Manhattan è tra i partecipanti alla mostra New Realist al fianco di Warhol, Rosenquit, Lichtenstein, Segal. Le sue opere sono ora dei monocromi, grandi carte incollate su tela, ”schermi” in cui appariranno di lì a poco lettere, cifre e particolari di insegne stradali che lo portano a una maggiore vicinanza con l’estetica pop internazionale. In concomitanza con i risultati conseguiti oltreoceano, Schifano si rifà ai prodotti della cultura di massa (Coca Cola ed Esso) impiegando smalti e vernici sulla carta da pacchi, adoperata quale richiamo al “billboard” americano. Si può dire che, ad oggi, quell’iniziativa rimase un episodio isolato nella storia dell’arte degli ultimi 50 anni. All’epoca gli artisti italiani godevano di un successo pari a quello di quelli americani. Poi, dopo la Biennale di Venezia del 1964, con il gran premio assegnato a Robert Rauschenberg, l’arte statunitense si imporrà sul mercato globale, influenzandone le scelte critiche.
A proposito delle opere di Schifano, Cesare Vivaldi sosterrà che “non si tratta di Pop-Art: per lo meno non si tratta solo di Pop-Art. Oltre alla condanna della civiltà di massa fatta coi mezzi stessi della civiltà di massa (com’è tipico della Pop-Art) Schifano mette nei suoi quadri qualcosa di più: la sua fame di pittura [...] Schifano non si accontenta di contraffare in chiave grottesca i prodotti di massa, come i vari Oldenburg, Dine, Lichtenstein ma riesce a costringere il punto di vista volgare, sfigurato dell’uomo-massa a diventare pretesto di canto” (cat. galleria Odyssia, Roma 1963). Dal 1964 la sua attenzione attraversa una gamma di soggetti assai ampia rendendo più complesso il proprio stile: nascono i Paesaggi anemici, immagini di un mondo naturale rielaborato sul filo della memoria, si interessa alla rivisitazione della storia dell’arte, dipinge quadri legati all’infanzia, inizia una breve ma intensa attività cinematografica che lo porterà a realizzare i lungometraggiSatellite, Umano non Umano (con un cammeo di Carmelo Bene), Trapianto, consunzione e morte di Francis Bacon.
Si dirà che “L’arma di Schifano è il régard, un occhio-obiettivo, una camera fotografica mentale” [Maurizio Fagiolo dell’Arco] e “come nel mito di Mida,rende pittura quello che tocca“ (Eligio Cesana). Oltre a includere i propri dipinti in colorati pannelli di perspex, Schifano realizza monotipi legati al tema dell’Albero in stretta analogia con quello delle Palme dei primi anni settanta; natura e realtà sono concepite dall’artista attraverso uno schermo artificiale, un filtro sensoriale che si avvale di foto-impressioni e fotomontaggi. Gli anni Settantasono gli anni delle tele emulsionate, recupera infatti le immagini televisive su cui interviene con colori alla nitro. Nel mentre sviluppa il tema dei d’après con rifacimenti da Michelangelo, Cézanne, Gaugin, Magritte, Boccioni, Carrà, De Chirico, culminando con lo “Schifano che rifà Schifano”.
Dopo un travagliato periodo di sconforto ideologico per la pittura, Schifano riacquista passione nei pennelli addentrandosi nei temi naturalistici che negli anni Ottanta porteranno alla serie dei Gigli d’acqua e dei Campi di grano. Continua a lavorare a cicli tematici annoverando anno dopo anno gli Acerbi, la Casa sola, cuori e stelle, montagne, vulcani, dinosauri. Alla fine degli anni Novanta il suo studio è completamente invaso da televisori. Mario Schifano annota, fotografa. Scatta migliaia di fotografie allo schermo televisivo e le ritocca a mano. “Perchè girare il mondo” afferma l’artista “quando è il mondo che può venire a casa tua?”. Prima della morte, sopraggiunta a Roma il 26 gennaio 1998, si reca in Brasile per dipingere una favela di Rio de Janiero, sua ultima grande fatica.
Estremamente prolifico, Schifano si è sempre ispirato al flusso di immagini prodotto dalla civiltà e dai mezzi di comunicazione di massa. “Questo è stato il mio programma. È il mio guardare: non sono stato monocorde, questa è stata la mia incoerenza. Ma sono stato creativo e quindi costante. La costante attendibile del guardare: come guardavo, perché guardavo…” (in Schifano, ed. Essegi, Ravenna 1982).
di Rossella Redazione